Lo dico prima: questa non è una traduzione letterale del pezzo che ho scritto in inglese. Non sono un traduttore, e quando scrivo in inglese ho un certo vocabolario ed espressioni che mi vengono e che se mi mettessi a tradurre letteralmente in italiano farei delle schifezze. Questa cosa vale anche al contrario ovviamente. Questo il motivo per cui un sacco di miei post sono scritti o in inglese o in italiano; a seconda di come mi sento li scrivo in una lingua o l’altra e li lascio così. Questa volta però mi premeva esprimere il concetto sia in inglese che italiano.
Il punto dunque è che la foto singola, per quanto possa venire bene o sia addirittura stupenda, stupendissima, non mi soddisfa. O meglio, lo fa, ma la soddisfazione dura poco.
Invece mi è sempre piaciuto collegare e unire delle sequenze di foto in qualcosa di organico, in modo da raccontare una storia. E ho scoperto grazie a una conversazione sulla comunità di On Taking Pictures su Google+ di non essere il solo a godere del piacere del raccontare una storia per immagini (in inglese si dice con la solita efficacia “visual storytelling”).
Gli esempi che venivano citati dai rispettivi autori (Cody: Life in Motion, Jessica: Call and Response) magari non mi piacevano, e magari gli esempi che ho portato io possono benissimo non piacere o essere giudicati come inutili — ma chi se ne importa; scattiamo forse fotografie per gli altri o per noi stessi? Io sono di quelli che scatta per sé stesso principalmente, perché è una attività che in qualche modo inspiegabile mi appaga.
Qual’è il problema: che sembra quasi che reportage sia sempre da associare a qualcosa di straordinario: guerre in Afghanistan, i dolori di anime in pena, ex-belle ragazze drogate, delinquenti che vogliono rifarsi una vita, le morti o meglio ancora i deliri finali di un qualche vecchio parente che tira le cuoia.
E invece io faccio una vita normale, e le storie che vorrei raccontare sono semplici, lineari, a volte un po’ intime, insomma piccole storielle. E queste non appagano il pubblico, e anche se ho detto prima che io fotografo per me stesso, è comunque qualcosa che mi dà da pensare il fatto che una mia storia per immagini debba partire perdente in partenza perché non c’è la morte, non c’è la disperazione, non c’è il dramma estremo.
Sembra quasi che tutti quanti vogliano sfuggire la normalità e nessuno davvero apprezza (perlomeno a livello subconscio) la vita normale, quella a cui i nostri padri e nonni scommetto che anelavano per noi.
Il mio amico Dylan ad esempio ha come eroi fotografici Steve McCurry e altri fotoreporter di guerra; sogna di andare in Vietnam o Thailandia perché così si riaccende la sua scintilla fotografica, la sua creatività. Ma quello che vorrei dirgli è che un buon fotografo crea cose belle dove c’è la merda e che la capacità di agganciare un lettore con le nostre fotografie dovrebbe essere a prescindere dalla storia che si racconta.
Per questo mi sono deciso a pubblicare queste due raccolte di fotografie, Architetti al lavoro e Ultimi giochi.
Quest’ultimo in particolare mi sta a cuore perché racconta dell’ultima volta che Valentina ha giocato con Gemma. C’erano queste due bellissime bambine che irradiavano gioia e allegria in un pomeriggio un po’ cupo e grigio; e io non potevo fare a meno di pensare che la prossima volta che si incontreranno saranno bimbe diverse, magari parleranno già, magari Valentina non farà più ridere Gemma come fa adesso con ogni sua smorfia e faccetta.
E questo mi faceva pensare anche alla contemporanea perdita per un ottimo amico, forse l’ultimo con cui riuscivo a parlare sinceramente, senza nessuna maschera; e dico perdita a ragione, perché nonostante tutti i social networks di questo mondo, la vicinanza fisica resta insostituibile.