A maggio scorso ho assistito a una presentazione di Francesco Cito, noto fotografo italiano. Tra i vari progetti mostrati c’era anche “Coma”, in cui raccontava, attraverso immagini piatte e struggenti, la normalità che circonda dei ragazzi entrati in coma irreversibile.
E la normalità sarebbe quella di parenti e amici che festeggiano i compleanni, cambiano e puliscono i loro ragazzoni trentenni regrediti a un livello pre-infantile.
L’interpretazione di Cito sarebbe che: le mamme, loro sono anche contente di pulire i pannolini e cambiare i loro ragazzoni, perché è come un riavvicinarsi a quei momenti felici dell’infanzia in cui il bambino ha un bisogno morboso di loro. I papà invece si allontanano; e il motivo per cui lo fanno è che i papà (tutti quanti eh, nessuno escluso) riversano sui figli idee e aspirazioni mancate e quindi vedono i figli come proseguimento della loro esistenza o realizzatori di sogni mancati. E quando il figlio diventa un vegetale allora se ne disinteressano, e si allontanano.
Ora, io apprezzo e ammiro quei fotografi che costruiscono una narrativa attorno alle loro fotografie; quelli che cercano di espandere il potere di una sequenza di foto opportunamente scelte con la parola scritta (o narrata).
Ma a volte sarebbe meglio che non lo facessero, se poi arrivano a conclusioni rozze come questa, tagliate con l’accetta, vagamente offensive e irrispettose di una triste condizione in cui è difficile immedesimarsi.
Cito insomma dà per scontata una motivazione egoistica alla base dell’esperienza paterna, probabilmente influenzato da come la sua vita si è svolta. Ma poi estende con arroganza questa sua conclusione facendola diventare una verità universale.
Fosse stato un cretino qualsiasi a dire queste cose, ci sarei passato su senza pensarci troppo. E invece è stata questa persona i cui progetti fotografici sono degli esempi di stile, coraggio e sensibilità artistica a quintali; un vero peccato e una mezza delusione.